lunedì 11 ottobre 2010

Quella lunga giornata a Pazardjik

Mercoledì 6 ottobre, ore 16.30. Renata e Sevda mi hanno accompagnato e dopo mezz'ora sono già andate via. Resto solo nella camera 3.50x4.80. Tre letti, tre comodini in ferro, tre bracci per flebo, un televisore a ore, un minilavabo sormontato da un piccolo specchio, un enorme vecchio finestrone a vetri riparato da una grata in ferro, il tutto nei colori bianco su pareti giallognole. Chiamare spartani la stanza e l'arredamento è un eufemismo, qui invero si respira una dignitosa povertà, coperta dalla vernice bianca che vorrebbe nascondere la ruggine.
Sono entrato all'ospedale civico di Pazardjik, risalente al regime di Todor Jivkov, un ammasso di costruzioni fatiscenti che lentamente, ma molto lentamente, si cerca di rendere presentabili. Domattina dovrò essere operato per un non meglio precisato (per il mio scarso bulgaro) tumore o cisti o escrescenza o che diavolo sia alla vescica. Il silenzio della stanza è rotto dalla pioggia che da ieri cade sulla città. Ben poca cosa rispetto ai nubifragi abbattutisi su Liguria e Toscana. Dalla finestra una stradina che corre lungo l'isolato, alberi e aiuole ancora fiorite che qui non mancano mai, sovrastati da un cielo ancora chiaro ma plumbeo. Tra poco il buio coprirà tutto e resterà lo scroscio dell'acqua che continua a scendere copiosa.
Un tavolo e due sedie non menzionate prima contribuiscono a riempire la stanza. Da qui annoto queste righe per non pensare a domani e dare un po' di sfogo al magone che quatto quatto sta avvolgendo il mio stomaco. Per chi, nel corso della vita, è entrato negli ospedali soltanto per far visita a parenti e amici o donare talvolta il sangue, esservi ospite per la prima volta da paziente è dura. Anche il più piccolo intervento di routine intimorisce quanto un trapianto di cuore. E poi il cervello, che non puoi spegnere, pensa: andrà tutto bene e continuerò la vita come prima o entrerò nell'elenco delle tante vittime della malasanità, dove si può morire anche per la rottura di un braccio o l'asportazione delle tonsille? Sì, ma questo succede in Italia. E se succede in Italia, figuriamoci in Bulgaria... Non conosco le statistiche degli ospedali bulgari, ma prego che – nonostante le strutture obsolete e fatiscenti – vi siano almeno, a far da contrappeso, buoni medici.
Inizia tutto martedì scorso. Mi sveglio presto e, prima ancora di mettere sul fuoco la caffettiera preparata la sera prima, mi infilo nel bagno per svuotare la vescica. Noto sulla tazza del gabinetto una goccia rossastra. Mi era già successo alcuni mesi prima di orinare sangue, ma il giorno in cui il medico di famiglia mi prescriveva le analisi del caso, nello stesso pomeriggio espellevo naturalmente un piccolo calcolo, e tutto è finito lì. Adesso questa nuova goccia mi riporta all'esperienza precedente. Infatti orino di nuovo sangue, ma questa volta per l'intera giornata. Tutto questo, associato ad altri piccoli bruciori durante la minzione, mi fa correre dal medico che mi prescrive due ecografie: renale e prostatica.
Un lev di ticket al medico e un lev per le ecografie all'ospedale Eskulap (sono pensionato e ho diritto alla riduzione). L'ospedale si trova di fronte alla palazzina dove abito, quindi sono contento di poter fare casa e bottega. L'ecografia renale va bene ma appare qualcosa di anomalo in quella prostatica. Lo specialista dice a Nadia, l'amica bulgara che mi ha accompagnato per la traduzione, che bisognerebbe fare una risonanza magnetica per avere più certezze. Non so quando imparerò qualcosa di accettabile della lingua bulgara, nel linguaggio prettamente medico e tecnico, poi, non voglio neanche pensarci. Per la risonanza bisogna pagare un ticket di 63 leva. Occhei. Il giorno dopo, al piano superiore, mi trovo steso su una base che mi porta entro un semicerchio che mi sovrasta, zum tac zum tac, avanti fermo indietro, davanti agli occhi led bianchi gialli e verdi che si accendono in alternanza quasi ipnotizzandomi. Un'ora prima di stendermi su quell'aggeggio ho dovuto bere mezzo litro di cicuta fornitami dall'ospedale gratuitamente, adesso occorre iniettare ancora un liquido che dovrebbe essere di contrasto. Occhei, altre 45 leva.
Dopo un'ora abbiamo il risultato della risonanza. Lo specialista analizza i risultati e mi consiglia di fare una cistoscopia e una biopsia da mandare a Plovdiv per l'esame. Prendiamo appuntamento, anche per riprendere fiato, per il martedì successivo alle ore 8.30 a digiuno. Altre 82 leva.
Queste righe, lette d'un fiato, potrebbero passare quasi inosservate. Invece è trascorsa quasi una settimana, con uno stato d'animo difficile a descrivere, pensieri che si accavallano e offuscano il cervello, e d'un tratto mi rendo conto di quante cose avrei voluto fare e non ho fatto, rimane ancora in sospeso il progetto per il quale è cambiata la mia vita, e dentro sento un vuoto che in questo momento nessuno può riempire, perché sono solo, solo con me stesso. Faccio un sorriso o una battuta di circostanza agli amici che mi fanno coraggio, rientro a casa e sento – a pelle – la paura di chi ha condiviso con me questa vita che avrebbe potuto essere serena ed accettabile e che invece, proprio per le sue poliedriche sfaccettature, si sta rivelando anche disgraziata e colma di incertezze e di dolore. Ci guardiamo negli occhi senza parlare. Colgo un attimo di disattenzione mentre sta cucinando. Le vado dietro, la giro verso di me e ci abbracciamo. Ci stacchiamo con gli occhi lucidi, sempre in silenzio.
Va bene, è andata come è andata. Bisogna accettare quello che arriva. Supererò senz'altro la prova. Domani ritornerò all'Eskulap e vediamo cosa succede. E invece no. La scena cambia alle nove di sera.
Su skype ci telefona Darina, moglie del nostro amico “carabinero”, al quale avevo confidato – incontrandolo tre giorni prima – i miei problemi. Darina è figlia dei nostri amici bulgari Velo e Maria e oltre a essere anche amica nostra, è caposala al reparto Urologia dell'ospedale civico, mentre la madre è ausiliaria nello stesso reparto. Non riusciamo a capirci, per cui chiama a Roma la cugina Tania, anch'essa nostra amica, che, a sua volta, traduce cosa vuol dirci Darina: “Domani Antonio non deve andare all'Eskulap. Digli, per favore, di venire assolutamente da me in ospedale domattina alle ore 10 e vediamo insieme cosa bisogna fare”.

IL MIO LETTO ALL'OSPEDALE
Dopo lunghe tergiversazioni e discussioni, decido di saltare l'appuntamento all'Eskulap e il giorno dopo, alle 10, vado all'ospedale civico accompagnato da Renata e Sevda. In ogni caso, in un momento così delicato, avere amici che mi stiano così vicini è un grande conforto. Darina ci presenta il dottor Dimitar Velev, un giovane medico di 37 anni, dall'aspetto simpatico e rassicurante, al quale facciamo vedere la documentazione acquisita fino a quel momento. Mi fa subito un'altra ecografia prostatica. Un ulteriore, vecchio esame manuale, esclude qualsiasi problema alla prostata, confermandomi invece quello alla vescica. (Per molti anni ho temuto questo famigerato “dito al culo”, accorgendomi – in cinque secondi al massimo – che non solo non viene meno la nostra mascolinità, ma forse potremmo comprendere meglio le “diversità”).
Il dottor Velev mi conferma che bisogna operare, rassicurandomi che con un piccolo intervento con il laser si dovrebbe risolvere tutto. Mi domanda se voglio farmi operare nell'ospedale scusandosi per il dissesto dell'ambiente e mi dice che, volendo, posso andare in qualsiasi altro ospedale più moderno. Le parole e la sicurezza di questo giovane medico mi convincono delle sue capacità professionali più che ogni altra moderna ed accogliente struttura.
Ero già entrato altre volte in questo ospedale a far visita ad amici ricoverati e ricordo di aver pensato che se un giorno vi fossi entrato come paziente, sarei morto prima di entrarvi. E invece eccomi qua, unico ospite nella stanza. Sono quasi le dieci, l'ospedale è immerso nel silenzio, spengo la luce e sento solo il rumore delle gocce che battono sulla finestra, che il buon Dio continua a mandare, forse, per accompagnarmi in questa lunga notte, mentre il riverbero di un lampione vicino irradia nella stanza una luce quasi soffusa...
Domani sarà un altro giorno.
(Questo post, probabilmente, avrà un continua..., che spero di poter raccontare con animo un po' più sereno).         

Condividi su Facebook, Twitter o Google Buzz:
Condividi su Facebook Condividi su Twitter Pubblica su Google Buzz

4 commenti:

  1. Ciao Antonio chi ti scrive ha avuto modo di conoscerti lì a Pazardzhik, prima per caso in una giornata qualunque uscendo da un locutorio mi sentii chiamare : “Ah Giusè?..Giusè sei proprio tu? Non mi riconosci?”. Non ti conoscevo di certo e neanche tu d’altro canto, ma fu un modo simpatico per iniziare ad avviare una conversazione (era il tuo amico Stoyan che ti aveva detto il mio nome)…correva il 2006

    Poi un giorno nei miei andirivieni tra l’ Italia e la Bulgaria sento parlare di un nuovo bar che ha aperto da poco gestito da un italiano…un po’ stanco della colazione bulgara, una mattina entro nella tua “Laguna Blu” e vedo una persona sola dietro il bancone intenta a svolgere le sue cose…Emilia mi fa : “ma guarda è Antonio”, ed io : “no che non è lui”ma...non faccio in tempo a terminare la frase che alzi lo sguardo e…nasce un sorriso sulle facce di tutti.

    Abbiamo avuto diverse occasioni per parlare sia con me sia qualche volta con mio padre..piu’ volte ci siamo soffermati nel tuo bar a discutere ma non mi avevi mai parlato neanche accennato della tua passione per la scrittura ne del fatto che stavi tenendo un diario sulla rete..ti capisco pero’ perché anch’io ho un carattere molto chiuso raramente mi apro,esterno quello che sento anche con le persona a me piu’ care.
    Questione di carattere anche se devo iniziare a smussarlo ;=)

    Cosicchè appena entrato nel tuo blog mentre leggevo trovavo una certa familiarità con cio che stavo scorgendo, per poi avere conferma una volta visto il tuo nome e la tua foto sul fondo del blog con mia grande felicità…

    Una bella cosa Antonio quella che stai portando avanti e che ti auguro di portare avanti ancora per molto..mi piace molto il tuo modo di scrivere divertente,intelligente e preciso..oggi che nella grammatica e nella lingua italiana di strafalcioni se ne leggono all’ordine del giorno..

    Apprendo dal tuo blog che sei in ospedale..la cosa mi spiace ed anche molto e ti faccio i miei migliori auguri per una pronta guarigione ai quali sicuramente si associano quelli di mio padre che terrò al corrente su questa tua bella iniziativa…

    Un abbraccio Antonio..e mi auguro di poterti rileggere al piu’ presto..

    Giuseppe

    RispondiElimina
  2. ANTONIO!!! AMOR!!! Sono con te e spero che il tuo blog continuerai portare avanti ancora per molto tempo!!! Renata sicuramente nn e´capace (come me) di scrivere in italiano, quindi devi guarire per forza, ti penso, tvb

    RispondiElimina
  3. Caro Giuseppe, le righe che hai scritto sono pietre preziose che rimarranno nel mio cuore. Un grazie di cuore e la promessa che continuerò a... tormentarti con altri post. Un abbraccio a te e papà.

    RispondiElimina
  4. Ciao Antonio...felice di rileggerti e felice del fatto che l'operazione sia andata bene...
    Ora mettiti calmo ed rispetta i tempi per la convalescenza..Un abbraccio ed un saluto a Renata..a presto..ps hai avuto coraggio ad operarti in quel posto...c'ero stato dentro una volta per una sciocchezza e gia' faceva una certa impressione..poi dalle foto vedo che la realtà supera l'immaginazione...Un abbraccio grande a presto..Giuseppe

    RispondiElimina