Il 13 giugno è sempre stato, nella mia vita, un giorno
particolare, una data che rimane impressa nel tempo. Mi chiamo Antonio e si
potrebbe pensare al mio giorno onomastico, perché oggi si festeggia S. Antonio
da Padova, ma non è così perché – pur accettando gli auguri di tanti amici –
tengo sempre a precisare che io festeggio S. Antonio Abate, che cade il 17
gennaio, il santo protettore degli animali ma anche patrono di Burgio, la mia
città natale (a dire il vero chiamare Burgio città è un po’ esagerato perché è
solo un piccolo paesino della Sicilia, ma oggi sembra si debbano chiamare città
anche i villaggi, per darsi più importanza). A parte questo piccolo inciso, il
13 giugno del 1956 è stato il primo giorno lavorativo della mia vita, quando –
cacciato via dal collegio – mi ritrovai improvvisamente e provvidamente, a 15
anni ancora da compiere, a guadagnarmi da vivere, in una città chiamata Roma,
con un orario fuori dagli schemi sindacali: 12 ore di notte, dalle 19 di sera
alle 7 della mattina, ma viaggiando in autobus quotidianamente per andare a
Nettuno, praticamente i miei dormitori per sei mesi, dove abitavano i miei
parenti più prossimi. Per Nettuno, infatti, mi avevano fatto il biglietto i
responsabili del collegio, dove avevo gli zii, che erano anche i parenti più
prossimi. Poi decisi di trasferirmi a Roma.
Esattamente 50 anni dopo, il 13 giugno del 2006, lasciandomi
dietro le storie di una vita fatta di lavoro, di amori e di affetti, di
vittorie e sconfitte, di gioie e dolori, iniziava per me una vita nuova, vita
da pensionato, che avrei vissuto in un Paese ancora sconosciuto, ma nel quale
ero fermamente convinto di restare per il resto dei miei giorni. E così oggi
sono già trascorsi otto anni, e come in ogni anniversario che si rispetti, mi
ritrovo a fare un bilancio e un veloce ripasso di questo periodo che potrebbe
sembrare breve quando si hanno venti o trent’anni ma che diventa lunghissimo
quando l’età incalza e si vive nell’incerta sorte che il Padreterno
giornalmente ci elargisce.
Ricordo i pensieri confusi che vorticavano nel mio cervello
quando finalmente dall’Italia raggiungemmo Mokrishte, piccolo paesino
confinante con Pazardjik. L’unico conforto l’accoglienza festosa dei genitori
di Stoyan e i sorrisi dei vicini, curiosi di vedere un italiano trasferirsi
armi e bagagli in uno sperduto villaggio della Bulgaria, loro abituati ad
emigrare per poter sfamare la famiglia. Poi il giorno dopo conoscere Pazardjik,
città provincia di circa 75.000 abitanti, tranquilla e quasi sonnolenta, città
ideale per me che mi trascinavo lo stress di una vita romana diventata
insopportabile, ma che si presentava al turista o al nuovo arrivato in una
continua alternanza di vecchio e nuovo, come reduce da un bombardamento e
relativa rapida ricostruzione. Ecco, così mi si è presentata la prima volta
Pazardjik. Ma passati i primi giorni, legati ancora ai ricordi di una Roma
difficile da dimenticare, ho cominciato ad apprezzare tutto quello che mi
girava intorno, soprattutto la serenità e il sorriso di gente che possedeva solo
quello. E l’alternarsi di caffè alla moda luccicanti di stigliature e morbide
poltrone ove consumare lentamente un caffè, con carretti trainati da cavalli,
condotti da zingari sporchi e scuri, seguiti da luccicanti Suv ed eleganti e
costose automobili a far da contrappeso a una fila di capre che un vecchietto
riportava a casa dal pascolo, mi dava la sensazione strana di tornare indietro
nel tempo con improvvisi riverberi di realtà.
Il 2007 è stato l’anno della svolta per Pazardjik e per
l’intera Bulgaria. L’ingresso nell’Unione Europea è stata la pietra miliare di
un percorso che la Bulgaria
si apprestava a percorrere insieme a me. Da quell’anno molte cose sono cambiate
e gli aiuti europei hanno dato e stanno dando la spinta decisiva all’ingresso
nel consumismo e una svolta anche nel modo di pensare e operare dei bulgari.
Tutto questo non mi consola, perché dovrei imbattermi in tutto ciò che di
negativo ho lasciato in Italia, ma penso che non ne avrò il tempo, perché
quando succederà avrò lasciato il mio posto ad altri. Nel frattempo godo di
quello che di buono in questi anni si è fatto e si continua a fare per
migliorare la città e le condizioni di vita dei suoi abitanti. Mi accorgo che
in otto anni la città è stata trasformata, grazie all’Europa e alla buona
amministrazione del sindaco Popov, e in chiunque la visita lascia la piacevole
sensazione di una città a misura d’uomo, vivibile e soprattutto luogo ideale
per viverci. Stiamo cambiando anche noi italiani, perché da tanti piccoli
segnali, mi accorgo che ci stiamo lentamente bulgarizzando, si fanno nuove
conoscenze e nuove amicizie, la lingua, pur ostica, inizia a diventare più
familiare, iniziamo a vedere intorno a noi dei concittadini e si allontana
l’autoemarginazione che nasce dalla paura dell’ignoto.
Dall’ottobre del 2013, poi, alcuni servizi Rai e Mediaset
sui pensionati italiani in Bulgaria, hanno fatto esplodere il fenomeno, per cui
ci troviamo al centro dell’attenzione dei media, in Italia, per una
esplorazione prima seguita da un possibile trasferimento subito dopo, di molti
pensionati che in Italia vanno sempre più alla deriva. Per questo motivo è
cambiata, inconsapevolmente, anche la mia vita, perché quelle che erano le mie
giornate quasi languide, passate tra computer, televisione e qualche passeggiata,
sono improvvisamente diventate iperattive, trovandomi costretto
caratterialmente a rispondere a una valanga di e-mail di connazionali disperati
che vorrebbero partire il giorno dopo, guidare e far da cicerone informatore
per quelli che fisicamente si presentano e vogliono sapere, vedere,
conoscere…com’è la sanità bulgara, quanto è il costo della vita, se la pensione
la possiamo riscuotere qui, se si può cambiare la patente, se è vero che qui
possiamo riscuotere la pensione lorda, se possiamo targare in Bulgaria
l’automobile, se abbiamo un Patronato… mille domande alle quali spesso non si
possono dare mille risposte, perché le informazioni che abbiamo le abbiamo
apprese anche noi nel tempo nei vari forum su internet, perché le istituzioni
invece di aiutarti, ricopiano anche qui quello che succede in Italia, e cioè ti
mettono tanti paletti da farti fare il percorso ad ostacoli, rasentando talora
il sadismo…
Oggi siamo molti di più di otto anni fa, quando mi sentivo
veramente un esule, e tanti altri stanno arrivando, traendo beneficio dalle
nostre esperienze… Se devo tirare le somme, posso dire che il bilancio è
nettamente positivo, così che chiunque mi scrive e mostra l’intenzione di
volersi trasferire qui, non posso che consigliarlo di osare il grande passo,
penso ne valga la pena…
Mi rivedo perfettamente in te Antonio, fin dagli anni della mia infelice infanzia; a quand’ero in collegio, Convitto Nazionale, per la precisione a Sessa Aurunca nel casertano, e qui la mia poesia:
RispondiEliminaIL COLLEGIO
Nel buio con la mente a cercar fantasmi
di un passato lontano ormai che non c’è più;
pallide e squallide ombre rivedo apparir
come in un film nella mia mente turbata.
L’orologio batte il tempo impietoso,
son le due, in questa lunga notte d’insonnia;
penso a quand’ero bambino, in collegio,
e l’orologio scandir l’ore nella notte solitaria.
Sento ancor il silenzio della campagna
e un nodo in gola nel mistero della notte;
le mie lacrime bagnavano il cuscino,
complice della mia segreta disperazione.
Quante notti ho rivissuto quella solitudine
in un paese che non era il mio;
strappato infame, dalla mia casa paterna,
dai miei affetti più cari, più teneri.
E mi addormentavo così nella notte, piangendo…
confortato dai rintocchi di una campana lontana;
avrei voluto forse non svegliarmi mai più
e uscir dal carcer di quel fatale destino.
Questa notte son qui, lontano da quel luogo,
eppure ho il cuore che batte al ricordo di allora.
Mai manderei i miei figli in collegio…
Direi al destino: “Ho sofferto io, anche per loro!”
Corrado Pavone
Napoli, 30/12/2000