martedì 11 maggio 2021

RESILIENZA: Chi era costei?



Nella vita non si finisce mai di imparare, diceva mio nonno. E’ vero, e il primo che riconosce la propria ignoranza sono io. A motivo della mia professione, 32 anni come linotypista e 7 da fotocompositore, ho battuto a macchina - per essere stampati - migliaia di libri e di articoli di scrittori studiosi e giornalisti che trattavano gli argomenti più svariati. Ebbene, in tutti quegli anni non mi sono mai imbattuto nella parola magica che oggi va per la maggiore: RESILIENZA. Ricordo che la prima volta l’ho sentita pronunciare da un politico e mi sono dovuto ricredere sul nostro parlamento che avevo giudicato fino a quel momento il più ignorante della nostra storia repubblicana. Azzo!!, mi son detto, qui si disquisisce ad alti livelli!

Con la mia curiosa ignoranza, alla fine, sono andato su internet e finalmente anch’io, dopo una vita, ho capito il significato della parola. Ma non lo dico, perché voglio che anche chi mi legge, vada su internet e sui tanti dizionari a disposizione, per comprenderne il significato. Perché se oggi in mezzo a un discorso o un dibattito, che sia tra amici o in tv o sui giornali, non ci butti dentro una resilienza, allora sei proprio un ignorante anche un po’ cafone. Il parlamento e il governo ne hanno fatto addirittura un impegno proiettato nel futuro, creando un PNRR. Ecché vor di’?, direbbe Montesano. Il PNRR è il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Hai capito? La resilienza l’hanno elevata a legge dello Stato. Una volta si gridava W la Resistenza. Oggi si grida W la Resilienza!

Ho voluto fare questo preambolo per rendere leggero l’argomento, ma di leggero in verità c’è poco, perché mi accorgo sempre più che ogni giorno continuano a prenderci per i fondelli con queste parole pompose e incomprensibili al novanta per cento degli italiani, perché se non capisci stai zitto per non far vedere agli altri la tua ignoranza. Ma quanti sono gli italiani che sanno cosa vuol dire resilienza? Questa parola esiste da tempo immemorabile, ma è stata usata finora solo da studiosi addetti ai lavori, il 97 per cento della gente comune non l’ha mai sentita, ma adesso è fico pronunciarla e fa tendenza. Di positivo c’è solo una cosa: è una parola italiana.

Perché di più grave, a mio giudizio, sono tutte quelle parole inglesi che sono entrate nell’uso comune dopo questo maledetto virus: si inizia con il lockdown, poi smart working, recovery fund, clic day, triage, hub, baby sitting, influencer, ecc. pronunciati bene o male ma buttati lì. Fin qui potremmo dire che è anche un bene perché impariamo l’inglese o il francese, sempre dopo essere andati su internet a vedere il significato di una parola, che per gli anglofoni poi vuol dire tante altre cose. Ma noi abbiamo la lingua più ricca, più bella e più dolce del mondo e andiamo a scavare nei pozzetti degli altri? L’unico termine inglese che posso approvare è fatto di tre parole: Made in Italy. Questo è comprensibile a noi e a tutto il mondo perché tutto il mondo invidia l’Italia, iniziando dalla lingua alla cultura, all’arte, all’artigianato, alla moda, alla enogastronomia, alla Ferrari e mi fermo qui. Ecco, tutto questo è Made in Italy e mi va bene.

I termini inglesi che oggi ti rendono colto agli occhi degli altri sono tanti, purtroppo, ma l’ultimo che ho citato proprio non mi va giù: influencer. E’ un mondo che nasce sui social, popolato generalmente da giovani e giovanissimi, che hanno al centro un furbacchione o una furbacchiona che si arricchiscono alle spalle di coglioncini chiamati anche loro col termine inglese follower, che li seguono a occhi chiusi, che non riescono a ragionare con il proprio cervello e si fanno guidare da quello dell’influencer. E d’altronde non dò colpa a questi ultimi ma a chi li segue. Sempre mio nonno, buonanima, diceva che ci sono i furbi perché esistono gli stupidi.

Oggi non sono molto ottimista e mi domando: Italia, Italia mia, dove cavolo stai andando?